R) Ho visto per la prima volta il T’ai Chi nel 1969 a Los Angeles, quando ancora il mio interesse predominante era rivolto verso lo Yoga. Mi ha subito colpito per l’armonia e la concentrazione mentale che i suoi movimenti richiedevano. D’allora ho cominciato ad occuparmene, anche se, per qualche anno, in forma rapsodica.
Nel 1973 ho piantato il lavoro e, su consiglio di un amico, sono andato a Singapore, dove ho avuto la mia prima effettiva iniziazione allo stile Yang. Sono quindi tornato negli Stati Uniti a studiare T’ai Chi presso alcuni maestri cinesi là residenti. Ho fatto due altri viaggi in Asia, infine sono andato a Hong-Kong, direttamente dal maestro Yang Sau-Chung.
Essere ammesso a suoi corsi non era per niente facile, bisognava muovere delle conoscenze. Alla fine sono però riuscito a studiare formalmente con lui. Studiare ‘formalmente” in Oriente significa lavorare da uno a uno, in pratica prendere delle lezioni private.
D) Qual è l’elemento essenziale che distingue il T’ai Chi Ch’uan come arte marziale?
R) Il T’ai Chi Ch’uan è innanzitutto una forma di coltivazione. In questo senso, come arte marziale, è qualcosa di molto particolare che ha davvero molto poco da spartire con quelle dure, o esterne, tipo il Karate.
Esso conserva la struttura formale dell’arte marziale, ma è essenzialmente un modo di coltivazione. Del carattere. Dell’energia. Del movimento.
Come dicono tutti i testi classici, lo scopo del T’ai Chi è lo sviluppo dell’energia interna che può essere ottenuto soltanto con l’affinamento della sensibilità e dell’intelligenza con cui percepiamo il nostro modo di muoverci. Il filone culturale in cui affonda profondamente le sue radici è quello taoista del quale ha sicuramente ripreso l’atteggiamento mentale di calma, di ricerca dell’equilibrio fra il fluire delle percezioni interne e quell’ esterne, di assoluta decontrazione muscolare.
I grandi maestri del passato potevano scagliare qualsiasi persona a quindici metri di distanza senza contrarre un muscolo. Ora, senza mitizzare troppo questi racconti, mi sembra che la ricerca della rilassatezza e della fluidità del movimento sia un tratto assolutamente distintivo del T’ai Chi rispetto a tutte le altre arti marziali.
D) Oggi molti intendono il T’ai Chi Ch’uan essenzialmente come una forma di ginnastica terapeutica e non come un’arte marziale. Qual è la sua opinione in proposito?
R) Una volta era indubbiamente un’arte marziale che affidava le sue risorse all’utilizzo dell’energia interna come effettivo mezzo di autodifesa. Bisogna però considerare che in passato s’iniziava a praticare da bambini e a 18 anni si era dei leoni, si sviluppavano delle capacità straordinarie.
Oggi ci si avvicina al T’ai Chi in genere in età adulta, magari quando si comincia ad accusare qualche acciacco, e si pensa allora ad esso come strumento terapeutico. Francamente è un modo di concepirlo che non mi piace e che non condivido. Lo scopo primario del T’ai Chi è quello di allargare la consapevolezza del proprio modo di muoversi, di respirare, di assumere determinate posture. Soltanto dopo che questo è avvenuto, ha senso porsi il problema di correggere qualcosa, se si scopre che c’è qualcosa da correggere. Le posizioni flesse, i movimenti lenti, morbidi del T’ai Chi permettono di vedere, come con una lente d’ingrandimento, quello che la velocità normalmente nasconde. Ma non è detto che ciò che si riesce a vedere sia necessariamente sbagliato. D’altra parte, già con l’opera di divulgazione di Yang Chen-Fu, intorno agli anni ‘20, aveva assunto l’immagine precisa di ginnastica terapeutica, così come la sua attuale diffusione di massa in Cina Popolare è legata a suoi aspetti terapeutici.
D) Quali sono i metodi e i medi delle sue lezioni?
R) Ho avuto la formazione tradizionale classica che mi hanno dato i maestri cinesi con cui ho studiato; mi sforzo di rispettarla adattandola però a certe esigenze della nostra società.
Diciamo che innanzitutto consiglio a miei allievi di arrivare qualche minuto prima dell’inizio della lezione per cambiarsi con calma, rilassarsi, magari prendere qualcosa di caldo. Ciò aiuta abbastanza ad abbassare una specie di cerniera mentale fra il casino che si porta con sé da fuori e lo stato di calma concentrazione che occorre per praticare proficuamente il T’ai Chi. Con i principianti iniziamo a prendere coscienza del nostro modo di muoverci, di respirare, delle inutili contrazioni delle spalle, del ventre, del torace, che ostacolano la fluidità del movimento.
La struttura della lezione è poi più o meno questa: cominciamo con esercizi di Chi Kung, statici e dinamici – il Chi Kung rappresenta l’insieme delle tecniche atte a coltivare l’energia – quindi iniziamo la pratica della forma vera e propria. Con allievi che mi seguono da qualche anno facciamo Tui-Shou – si tratta di esercizi eseguiti in coppia con i quali ci si tira e ci si spinge usando il flusso dell’energia interna ed evitando l’uso della forza muscolare. Gli allievi avanzati, infine, pasticciano un po’ con la spada e con la sciabola.
D) Mediamente quanto tempo occorre per diventare un discreto praticante di T’ai Chi?
R) Non credo che si possa fare una media. E’ un processo assolutamente soggettivo che varia in maniera impressionante da individuo a individuo. E poi bisogna intendersi su cosa vuol dire avere appreso il T’ai Chi. Ho ragazzi che imparano abbastanza in fretta la forma, ma il cui livello d’apprendimento resta magari un fatto puramente tecnico di superficie. Ho allievi più anziani che fanno più fatica ad apprendere la forma, ma quando ci riescono l’interiorizzano in maniera molto più profonda.
Nell’apprendimento non c’è solo il fatto tecnico, ma anche l’acquisizione di un giusto atteggiamento di concentrazione mentale e di riflessività su quello che si sta facendo.
D) C’è oggi a Milano una maggiore consapevolezza riguardo a quello che realmente possono dare le varie arti marziali e riguardo alla qualità dei lavoro dei vari maestri?
R) A livello di massa non ancora. Purtroppo la maggior parte delle persone sceglie un posto piuttosto che un altro per questioni di comodità, di prezzi, di orari. Difficilmente in funzione della qualità.
All’interno di ciascuna disciplina, le differenze qualitative sono enormi fra le diverse scuole, e la gente fa fatica a capire che il ruolo dell’insegnante è determinante, che non s’impara una serie standard di tecniche uniformi, ma il modo d’interpretarle, di articolarle e di trasmetterle di un certo insegnante.
Oggi a Milano il T’ai Chi è piuttosto di moda e tutto sommato è un fatto negativo. Molti vi si avvicinano per sentito dire, per curiosità, non per un vero interesse personale. Praticano per qualche mese e poi inevitabilmente smettono. Negli anni scorsi non succedeva. Chi iniziava, lo faceva per una sua precisa convinzione personale, difficilmente poi smetteva.
Resta infine il fatto che, rispetto almeno ad altre arti marziali, la consapevolezza di quello che realmente il T’ai Chi Ch’uan è e può dare è piuttosto diffusa. Non mi è capitato di avere qualcuno che sia venuto da me con la segreta speranza di acquisire l’invincibilità.
D) Lei non ha mai fatto la minima pubblicità al suo lavoro né la palestra dove insegna compare sulle pagine gialle. Quali sono le ragioni di resta scelta?
R) Forse un riflesso inconscio della mentalità cinese che ho assorbito dai miei maestri. Intendiamoci. sono ben lontano da atteggiamenti settari o iniziatici, ma credo che, quando si vuole davvero praticare T’ai Ch’i Ch’uan ad un certo livello il maestro bisogna davvero andare a cercarselo, non farsi catturare da lui.
Quando sono andato ad Hong Kong a studiare da Yang Sau-Chung, la palestra era al terzo piano di uno stabile decrepito e sporco, fuori non c’era nemmeno l’insegna della. scuola, eppure farsi ammettere era difficilissimo e costava una fortuna.
A Singapore, il mio primo maestro rideva quando vedeva sui giornali la pubblicità di altre scuole, perchè la considerava una svendita del T’ai Chi. Ora non è che io, per partito preso, ritenga sia meglio cercare di non farsi conoscere. Credo, però, che sia necessario mantenere fermo un certo livello di sobrietà e buon gusto.
Con tanti maestri di T’ai Chi Ch’uan che ci sono in giro e che vantano titoli di ogni tipo, penso che alla, fin fine lasciare a chi vuole imparare la fatica di andarsi a cercare il maestro che fa al caso suo.
Fonte
“MILANO E LE ARTI MARZIALI“, di Alfredo Morosini – Dutch Book, 1988
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